27 Ottobre 2012

Il pane dolce dello Shabbat…che vorrei se…

By Aria

 Il pane dolce dello Shabbat che vorrei se...non fossi allergica, è il pane dolce del Sabato
con lamponi e cioccolato, per me un connubio di sapori sublime e perfetto
che questa volta non ho potuto assaggiare ma del quale ho voluto rassaporare il profumo.
Con la dose di due pani ne ho fatto una treccia a sei capi tutti farciti, ma a dir la verità mi sono un pò persa…
Come ripieno ho utilizzato una vaschetta di lamponi e gocce di cioccolato
Per la copertura semi di papavero
Il pane dolce dello Shabbat che farei se…volessi vedere tutta la mia famiglia felice è ripieno di miele e di noci, non v’è dubbio: il mio piccolo aiutante ve lo può confermare attraverso queste immagini.
Anche questo non l’ho potuto assaggiare, ma ho voluto farlo perchè a me piace pensare sempre anche agli altri, e non lo dico per dire. Cucino spesso più per il resto del mondo che per me. 
Il resto del mondo che amo, s’intende.

 Metà impasto è quindi farcito con miele di castagno Rigoni d’Asiago e noci-
per la copertura semi di lino

piatto Wald

Il pane dolce che farei se…potessi tornare indietro nel tempo è…una treccia di sapori, ricordi, colori, emozioni, destini che s’avvitano insieme e che hanno, come tutte le cose, un capo e una coda.

Ho fatto quindi un’altra metà impasto, dove invece di 250 gr di farina ne ho messi 220 gr, gli altri 30 gr sono di cacao amaro. Tutto il resto invariato.
La farcitura è Nocciolata Rigoni e Amarene Fabbri, la copertura semplice zucchero a velo e cacao.

Per questa persona, alla quale non so smettere di pensare,
(anche se il tempo mi ha aiutata non a capire, ma a credere che in qualche modo
il nostro distacco sia funzionale alla sua felicità, alla quale, nonostante tutto, tengo)
avrei fatto un pane speciale.

Nocciolata e amarena, si si. Ma al cacao. Perchè lei è golosa. Perchè lei si distingue.
Perchè lei preferirebbe essere fuori concorso e non omologarsi, io lo so.

Fuori concorso come la mia speranza di poterle fare assaggiare questo pane, dandogliene la metà avvolto in uno strofinaccio per il giorno dopo, come solevo sempre fare.
A lei, che mi raccontava tanto di Anna Frank e che io ascoltavo pendendo dalle sue labbra in lunghe notti insonni della nostra indimenticabile adolescenza…

 Poi la cosa strana è che mi sono accorta di averlo fatto inconsciamente
ad intreccio chiuso, a cerchio senza mai fine…ogni fine un nuovo
inizio, si, insomma…delirio da febbre *______________*

tessuti e piatto Wald

Da Menù Turistico, alla quale sfida di Ottobre 2012 mando le prime due versioni del pane dolce del Sabato e la terza fuori concorso, riporto qualche nota su questa ricetta :
NON CHIAMATELO CHALLAH, perchè la Challah è un’altra cosa.  Perchè la cucina
ebraica è, anzitutto, cucina rituale: ogni ingrediente, ogni
procedimento, ogni piatto è il risultato di una Tradizione che, nel
corso dei secoli, si è suddivisa in più rivoli, ognuno dei quali, però,
mantiene ben fermo questo legame fra il cibo e la Legge, così come è
scritta nella Torah e in tutti i testi dell’Ebraismo: ed è attraverso
questo legame che se ne innescano altri, più alti, più fori, più
pregnanti, ora con Dio, che di questi precetti è l’Autore, ora con gli
altri Ebrei sparsi nel mondo, che attraverso il cibo esprimono
l’identità culturale di un popolo disperso, che rinnova nell’osservanza
quotidiana di prescrizioni alimentari quel Patto di alleanza che Jahwè
strinse col suo Popolo.
Un tramite fra l’umano e il divino, quindi, che è la definizione che si
applica a tutto ciò che è “sacro” e che, nel caso dell’Ebraismo, si
carica di una valenza ulteriore, legata alla ritualità e alla festa: un
rito familiare, anzitutto, e un rito collettivo, nei giorni di festa,
nei quali il cibo espleta ancor di più la sua funzione di strumento di
appartenenza- ad un popolo, ad un progetto, ad una storia di salvezza.

Un mio caro amico, Claudio, ha scritto giorni fa sulla pagina facebook dedicata a noi “squassati” una storia da lui narrata innumerevoli volte durante le visite guidate
alla Casa della vita del Finale Emilia,
(paesino confinante con il mio, ora tristemente balzato alla croncaca per l’epicentro del Terremoto dell’ EMILIA),
il suo amato cimitero ebraico del 1600.
Una Storia che parla dei Giusti.

La storia dei Giusti è nella tradizione Ebraica. E questa tradizione
afferma che in ogni momento, nella storia dell’umanità, ci sono sempre
36 Giusti nel mondo.
Nessuno sa chi sono, nemmeno loro stessi. Essi
però, sanno riconoscere le sofferenze e se ne fanno carico, perché sono
nati Giusti e provano rimorso per le colpe commesse da altri.
Per amor loro Dio non distrugge il mondo.
Durante la Shoah perirono 6 milioni di ebrei, ne sarebbero morti molti
di più se non fosse stato per l’eroismo, e – attenzione, poiché questa
parola viene usata troppo spesso e a sproposito – per l’eroismo dicevamo di
migliaia di persone che hanno rischiato la loro vita, senza esitare,
per salvarne altre.
21000, pensate, 21000 eroi assoluti, di cui 400 italiani.
Nel 1953 lo stato d’Israele decise di onorarli fondando lo YAD VASCHEM, meglio conosciuto come: IL VIALE DEI GIUSTI.
Per ognuna di queste straordinarie persone è stato piantato un albero
di Carrubo, scelta non casuale visto che i suoi semi sono tutti di
identica dimensione, lungo il sentiero collinare che porta al museo
dell’Olocausto. Ai piedi di ogni albero la targa con il nome del Giusto
onorato, al quale veniva consegnata la famosa medaglia. Il nostro amico ne possiede
una copia, la copia della Medaglia di Arrigo Beccari, un sacerdote di
Nonantola che salvò da morte sicura 80 ragazzini destinati altrimenti ai
lager. Subì torture, percosse, rischiò la vita, ma non cedette, nemmeno
di un millimetro. Sulla medaglia sono raffigurate due mani che
afferrano un una fune irta di spine, e la trattengono con forza anche se
si feriscono. Non mollano.

ecco, io dedico questo pane a tutti coloro che non mollano.
 Tutti. In particolare i calabresi, ai quali oggi mi sento così vicina.

Ecco, non voglio trarre conclusioni, ma solo pensare a quanto è meraviglioso un pane a forma di treccia, ricoperto da semini che simboleggiano la fertilità e l’abbondanza, e la gioia di gustare insieme qualcosa, finchè ce n’è, finchè dura….
perchè la vita è bella!

Il profumo??? In Internet non si sente…dovete assolutamente provarlo!

La ricetta originale nel post precedente, con altre 2 versioni tutte da scoprire, se ve le siete perse…

ma sì, dai, ve la riporto anche qui

per due trecce ripiene:

500 gr di farina 0
2 uova grandi medie (circa 60-62 gr con il guscio)
100 gr di zucchero
20 gr di lievito di birra
125 ml di acqua tiepida
125 ml di olio extra vergine d’oliva
10 gr di sale
100 gr di uva passa 
un tuorlo d’uovo
un cucchiaio di acqua

semi di sesamo e papavero 

 Prima di tutto e importantissimo, setacciare la farina.
Sciogliere il lievito nell’acqua
tiepida insieme a un cucchiaino di zucchero e far riposare una decina di
minuti fino a far formare una schiuma. Mischiare la farina, il sale e
lo zucchero e versarci il lievito e cominciare ad impastare, versare poi
l’olio e per ultimo le uova, uno ad uno, fino alla loro incorporazione.
Lavorare fino a che l’impasto si stacchi perfettamente dalla ciotola,
lasciandola pulita.
Lasciar lievitare per almeno due ore, dopodichè, sgonfiare l’impasto e
tagliarlo in due parti uguali. Tagliare poi ognuna delle parti in tre.
 Stendere
su un piano infarinato ognuna delle parti lunghe circa 35 centimetri e
larghe 15. Spargere su ognuna il ripieno preferito. Arrotolare tutte le strisce di impasto sigillando bene, in modo da
ottenere tre lungi “salsicciotti”.Unirli da un
capo e cominciare ad intrecciare.Ripetere l’operazione per la seconda
treccia. Adagiare le trecce su una placca da forno unta di olio.
Lasciare lievitare ancora due ore. 

Sbattere il tuorlo
d’uovo con un cucchiaio di acqua e spennellarlo sulla superficie;
spolverare
di semi di sesamo o papavero o granella, come nel mio caso. Infornare
in forno già caldo e STATICO a 200°C per circa 15-20 minuti.

Per le mie variazioni vedere sopra.
con questa ricette partecipo a

MTC Ottobre 2012- Gi sfidanti