29 Ottobre 2015

Torrone dei morti

By Aria


Ho paura di morire, perchè la morte mi ha portato via ciò che avevo di più caro con troppa fretta.
Ho trascorso e trascorro tutta la mia vita con il piede sull’acceleratore,
perchè ho timore di perdermi qualcosa di importante.
Ho paura di non avere abbastanza tempo per stare con chi mi è più caro, in particolare mio marito e i miei figli.
Quando mio padre è morto avevo solamente 5 anni. A dire il vero, fu per me quasi una “liberazione”. E’ dura dirlo con queste parole, ma ero troppo piccola per comprendere davvero cosa significasse. Non vivendo con lui, non mi venne a mancare la quotidianità di stare accanto a un padre, ma fui al contrario “risparmiata” di tante problematiche legate alla parola “papà”.
Non ci furono più grida a voce alta da parte di mio nonno quando lo vedeva avvicinarsi al portone di casa, non ci furono più immotivati pianti di mia madre, non ci fu più il dubbio tra lo scegliere di avvicinarmi ai cancelli dell’asilo per prendere le caramelle alla panna con cui cercava di conquistarmi e non ci fu più nulla da spiegare a quegli amichetti che spesso mi escludevano, e mi guardavano parlando tra loro all’orecchio.
La mia vita cambiò di colpo, tornai a giocare all’aperto, ad ascoltare le stagioni cambiare e a diventare più grande al loro ritmo, abbastanza per comprendere che mamma aveva un nuovo fidanzato e, anzi, si voleva sposare con lui, soprattutto adesso che aveva un grande pancione dal quale sarebbe arrivato – dicevano con entusiasmo -un fratellino.
Accolsi con piacere questa notizia, e subito mi misi a preparare un disegno per lui….Che noia, però, non arrivava mai, e quell’attesa interminabile fu per me spezzata solamente dal giorno delle nozze di mia mamma, stupenda e raggiante, giovanissima e ancora più bella grazie alla maternità che la stava cullando, e io ero davvero una damigella graziosa, con lo chignon e un vestitino bianco di pizzo.
Quando arrivò mio fratello, l’odore di latte, salviette e pasta per pannolini, insieme al suono argentino della sua allegra risata, riportò in una famiglia già provata una leggerezza che ricordo ancora con un morso alla stomaco, quando penso che è durata così poco.
Apparentemente, la mia vita era ricominciata e, all’età di 7 anni, sembrava quasi che anche io, come tutti i miei amichetti, avessi adesso quello che a tutti pareva tanto normale: una famiglia.
In quegli anni, effettivamente, la mia vita fu felice. Mia madre era una persona dolcissima e premurosa, io ero una bambina molto sensibile e sveglia, andavo molto bene a scuola e per questo mi si perdonava il mio caratteraccio, testardo e polemico, come doveva essere stato quello di mio padre – così almeno talvolta mi si faceva notare- .
Quegli anni hanno per me il sapore delle canzoni di Lucio Battisti e Francesco Guccini, ascoltate dal sedile posteriore di un’auto sulla quale mia madre imparava le sue prime lezioni di guida mentre io sognavo, cantando e specchiandomi dal vetro, di diventare un giorno una persona famosa.
Mamma aveva anche trovato un lavoro, e quando rientrava per la pausa pranzo, io l’attendevo con ansia sul cancello di casa.
Lei avrebbe certamente pranzato con un caffelatte dove inzuppava crostini di pane, e una mela a fine pasto, come d’abitudine.
La sua vecchia auto, una 126 color puffo, rimaneva spesso bloccata sulla strada principale, e io e il nonno andavamo spesso a recuperarla, finchè un giorno il nonno le regalò una Lancia Y nuova, e andai proprio insieme a lei a ritirarla dal concessionario.
La portammo anche dai miei cuginetti a farla vedere.
Loro abitavano  in una frazione vicino, dove il nonno insegnava lezioni di clarino e saxofono. Solo per me, eccezionalmente, impartiva lezioni di pianoforte, in una stanzetta fredda e umida dove lui restava tutti i giorni fino a sera.
Io lo accompagnavo per poi dirigermi, dopo la lezione, a casa di mia cugina Stefania, appunto.
E se mi guardo indietro vedo una bimba camminare sola per le strade del mondo con un cappotto rosso e un caschetto di capelli biondi sui quali era spesso posizionato un largo cerchietto di plastica.
Quella bimba sembrava felice.
Si, piuttosto felice.
Pochissimi anni dopo mia madre si ammalò, pareva una semplice influenza ma quella tosse e quella febbre non la lasciarono dall’Ottobre fino alla Primavera.
Così, non la vidi più truccarsi allo specchio per ore il Sabato sera o la mattina prima di uscire, il ricordo che ho di lei da quel momento è nel suo letto matrimoniale, sempre più magra e pallida, ugualmente bella e dolce.
Il giorno della mia Cresima si mise un vestito molto bello e mi accompagnò in Chiesa.
 Io indossavo un completo bianco e blu che mi faceva sentire bellissima e che lei stessa mi aveva acquistato in uno dei negozi più chic delle vicinanze.
Il fatto era che ero davvero orgogliosa della mia mamma: era la più giovane mamma della mia classe e tutti pensavano fosse mia sorella.
Quando stavo vicino a lei, mi sentivo bella per il solo fatto di essere accanto a lei: un sole splendido che illuminava tutto quello che le stava attorno semplicemente irradiando un sorriso.
Quel giorno tra me e me ero un pò arrabbiata con la mamma: se era così bella e perfetta nel suo abito rosso per la mia Cresima, perchè gli altri giorni stava sempre a letto?
 Che mi mentisse sulla sua malattia?
Che volesse stare per sempre su un letto anzichè con me fuori all’aperto?
Come ogni estate andavo al mare con mia nonna paterna.
Un lungo mese dove potevo alzarmi presto, quando lei andava con l’autobus alle terme, e fuggire nel mattino già luminoso e perlato a gustarmi la spiaggia semivuota, fino al molo per poi tornare da sola e fermarmi a comprare una brioche alla mia pasticceria preferita.
La brioche era appena sfornata e calda, e io amavo assaporare tutta sola la mia libertà.
Mia madre mi telefonava tutti i giorni e così aveva fatto anche la sera prima di morire.
Lei non lo sapeva che sarebbe morta, era speranzosa di uscire dall’ospedale nel quale stava rinchiusa da più di due mesi, e io ero certa che sarebbe stato così. Tutti lo eravamo.
Quando, dopo alcuni lunghissimi e spettrali giorni, trascorso il funerale, andammo da mio fratello (che era stato affidato temporaneamente a degli zii) e lo vidi nel parco che giocava ignaro di tutto, sentii i conati di vomito piegarmi in due.
Sentii le viscere scoppiarmi e inondare il mio sangue di una sostanza amara e tagliente: la rabbia.
Non fui presente con suo padre, quando glielo disse, ma trascorsi con lui alcuni giorni infinitamente lunghi e vuoti in quella casa per me di campagna.
Lui aveva 5 anni, io solamente 11.
In quel momento si chiudeva per sempre la fase della nostra famiglia felice.
Negli anni successivi mio fratello visse con suo padre e la sua nuova compagna, in una casa non lontana da quella che io condividevo con i miei nonni.
Anche se ero la sorella maggiore, io non ho saputo fare molto per lui.
Lui veniva tutti i giorni nella mia stanza e io forse lo ignoravo per ore, o lunghi minuti, non saprei dire. Vivevo in un mondo tutto mio.
Avevo cominciato a scrivere poesie e canzoni, e affidavo al mio Diario le cupe sensazioni di una ragazzina che si stava trasformando, nel corpo e nella mente, in una giovane donna senza la guida di una madre.
Nonostante abbia affidato alle pagine del mio Diario tutta me stessa nel corso della mia vita, credo di aver volontariamente omesso alcuni particolari agghiaccianti: la mia voglia di morire, la mia rabbia verso tutti, la mia cecità nei confronti dei colori della vita.
Mi svegliavo presto all’alba, quando era ancora buio, e prendevo il treno che partiva un’ora prima per non incrociare nessuno, tornavo da scuola tardi e se potevo non ci andavo nemmeno.
Io, che ero uscita dalla scuola media con il massimo del voti e promettevo molto bene soprattutto nello studio delle Lingue, non avevo più la forza di varcare la porta della mia classe e restare in mezzo alla gente per ore.
Ho disertato le lezioni molto spesso, rintanandomi in un bar con le cuffie nelle orecchie e la mia musica preferita a farmi compagnia.
Sono stata all’estero, per ritrovarmi laddove nessuno mi conosceva, e mi poteva giudicare per i vestiti neri che sempre portavo e per quel ciuffo di capelli lunghi e biondi che tenevo sugli occhi, 
 impedendo così al mondo di vedermi straziata dal dolore.
Poi, a poco a poco, l’amicizia mi ha salvato.
La musica mi ha salvato.
La lettura mi ha salvato.
La mia voglia di cantare, scrivere, cucinare….creare…perchè in fondo in fondo restavo ancorata, anche nei momenti più duri e crudeli da sopportare a livello fisico e mentale, ad una piccola scintilla di vita che voleva che io spiegassi le ali, trasformandomi da bruco in farfalla.

La prima volta che mi sono sentita una farfalla è stato quando ho incrociato gli occhi del mio futuro marito.
Erano luminosi e sgranati quasi lui la farfalla l’avesse vista subito, mentre cantava sul palco.
Essere amata ed accettata per quello che ero, nonostante i mille pettegolezzi e le leggende paesane sul mio conto, mi ha dato la forza per riprendere in mano la mia vita, liberarmi dagli attacchi di panico, dai sensi di colpa, dalle mille domande senza risposta e, più di tutto, dal bisogno ossessivo di avere mia madre accanto, pensando che fosse l’unica persona al mondo che mi aveva amato di un amore così grande.
A poco a poco, grazie a mio marito, ho lasciato andare mia madre.
L’ho perdonata.
L’ho accompagnata nel suo viaggio verso la luce che era anche il mio.
Il destino mi ha regalato il dono della maternità e, seppur con mille paure, ho scoperto che era meraviglioso prendersi cura di qualcuno e accettare di essere diventata grande, anche senza di lei.
La famiglia che tanto avevo voluto e cercato, in cui non riuscivo più a credere, adesso era vera.
La madre, la moglie, la donna adulta…adesso…ero io.
Cerco di vivere al meglio ogni istante della vita che mia madre mi ha donato, chiedendole perdono per tutte le volte che l’ho incolpata di avermela data senza permesso 
e di avermela fatta vivere senza di lei.
Corro come tutte le mamme del mondo dall’alba alla notte e a volte pure la notte scoprendo in me riserve ignote di energia, di amore, coraggio.
Ma spesso, come tutti, vivo nello sconforto per gli errori che commetto, per la pazienza che perdo, per il dubbio che mi attanaglia sul futuro dei miei figli.
Ogni notte, quando si addormentano, vado nella loro stanza e li osservo dormire.
La mia bimba è spesso scoperta, le mani alzate e il viso estremamente rilassato, incorniciato dai tanti capelli lunghi e biondi. Bellissima senza saperlo.
Il mio bimbo è rannicchiato come sono sempre stata solita dormire io, coperto fino al mento, nascosto nelle sue paure di bambino e immerso in un respiro pesante, le labbra socchiuse e carnose che ha ereditato da me.
E’ in quei momenti che mi ubriaco di felicità, e che prego perchè nulla di male possa succedere loro.
Ma sono consapevole che tutta la felicità che fatico a tenere nel mio cuore, nei miei occhi e tra le mani non è infinita. Non decidiamo noi quando il vento del destino inizia a soffiare e le stagioni mutano.
Tutto quello che si può fare è continuare ad amare, ad aggrapparsi alla scintilla d’amore che è dentro noi, che attende solo di riprendere a fiammeggiare.
Tutto quello che possiamo fare è vivere.
E credere nella rinascita, qualunque essa sia, perchè io non posso accettare che mia madre sia lì, rinchiusa in una soffocante bara di legno che ho visto interrare profondamente fino a che non mi si è spezzato il cuore.
No, non può essere lì.
Lei è nei loro occhi, perchè lo vedo da come mi guardano.
E io non sono sola, anche se per molto tempo ho faticato a crederlo.

Questa ricetta l’ho vista da Simona, non la conoscevo, ma ho voluto provarla per i golosi di famiglia e per fare conoscenza con un dolce della tradizione italiana. E’ infatti una ricetta napoletana, ed essendo un dolce molto goloso e calorico, ho pensato di creare dei piccoli lingotti da regalare alle persone a me care…che hanno apprezzato tantissimo.
Per ottenerli con estrema facilità, ho scelto uno stampo Pavonidea in silicone. 
Ingredienti
300 g di cioccolato fondente
350 g di cioccolato bianco
100 g di cioccolato al latte
250 g di nocciole
Procedimento
Fondere il cioccolato fondente a bagnomaria e con circa una metà di cioccolato pennellare la parte interna degli stampini in silicone e ponete in frigo a solidifcare per circa mezz’ora.
Fondere in un altro penstolino cioccolato al latte e cioccolato bianco e, una volta ottenuta una crema omogenea e priva di grumi, appena intiepidita aggiungete la nocciolata e mescolate bene.
Tostate le nocciole perchè rilascino i loro aromi e aggiungetele al composto.
Versate il composto negli stampini e riponete in frigo.
Rifondente il cioccolato fondente e velocemente versate sugli stampini in modo che non si confonda con il ripieno una volta che lo taglierete.
Riponete ancora in frigo per 6-7 ore poi sformate e gustate…o regalate 😉

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